Restare umani nel digitale

Oct 28 / Imma Costanzo
Come si può scrivere qualcosa di davvero utile su un tema che ogni giorno sembra essere già trattato, discusso, esaurito da altri?

E soprattutto, cos’è che mi spinge, in un sabato mattina, a scrivere di intelligenza artificiale invece di godermi un libro, una tisana e i miei gatti?

Forse la risposta è nel bisogno di pensare ad alta voce, quindi spero anche assieme a voi, a ciò che provo davanti a due modalità di pensiero che dominano il discorso sull’AI nei social, e, ahimè, pure in certi convegni: quella degli “arrivati”, e quella del “non arriverai mai”.

Il pensiero dominante degli “arrivati”


In questo caso, parliamo di tutti quei post, articoli, interventi e “spasmi” pubblicati alle sette del mattino che ci ricordano costantemente quanto siamo in ritardo: sul fronte dell’innovazione e delle trasformazioni digitali, delle tecnologie emergenti, del potere generativo dell’intelligenza artificiale.

Ci promettono di farci risparmiare tempo se solo fossimo disposti ad avvalerci di ChatGPT, ma poi sorge la domanda più semplice e disarmante: “Risparmiare tempo per fare cosa?” Ce lo stiamo chiediamo?

Di fronte a questi contenuti, mi sento spesso già “fuori dai giochi”.

La proposta implicita è partecipare a una gara che è già stata vinta da altri. La conoscenza sembra tutta da una parte, e io non posso che sentirmi inadeguata, come se fossi io quella “rimasta indietro”. E in effetti, è quello che sperimentiamo come psicologi, che nel mentre ancora discutiamo con fatica sulla scientificità della terapia online, scopriamo che l’AI è già ampiamente applicata alla psicologia: più di 200 strumenti digitali promettono diagnosi più precise da una parte e una migliore governance dei processi clinici e sanitari dall’altra”.

Il sentimento che provo è indifferenza, (ad alto contenuto “difensivo”? Penserà qualcuno. Può essere!). Un cambiamento intrapreso “da altri”, per scopi considerati validi, ma che sembrano appartenere a un mondo distante dal mio. Un mondo dove il valore è tutto nell’efficienza dei processi, nell’ottimizzazione dei dati. E quindi quando qualcuno mi chiede cosa ne penso dell’AI è come se qualcuno mi chiedesse se considero utile una calcolatrice: “Ma che razza di domanda è?” E soprattutto, come psicologa me ne importa davvero? È una domanda della quale ha senso occuparmi? E se si, come? A quali livelli e per quali finalità?

Il pensiero dominante del “non arriverai mai”


L’altro filone è quello degli “illuminati”. Ogni epoca ha i suoi. Filosofi, ingegneri, sociologi, startupper, psicologi-nerd, et al.; oggi pure influencer e divulgatori scientifici da pianerottolo. Hanno un megafono, scrivono con maestria, spesso con autorevolezza. Hanno già creato il futuro e ce lo stanno vendendo. Il valore sembra risiedere tutto nell’oggetto creato, nella novità in sé. E anche in questo caso, la mia reazione è indifferenza, o al massimo consumo.

Compro, se posso, e così “appartengo” al gruppo dei visionari. In entrambi gli scenari, il sentimento finale, resta lo stesso: impotenza. Un cambiamento deciso da altri, gestito altrove, che mi lascia spettatrice e con poco margine, non tanto di azione, quanto di pensiero. Un’impotenza alla quale, paradossalmente, più la avverto è più mi aggrappo, come una cozza al suo scoglio.

Forse perché in quella impotenza sento la certezza di un limite, un confine squisitamente umano che non si fa mai “muro” e il suo profondo significato che non intendo perdere. Non so voi, ma quando la narrazione si riduce solo alla velocità, all’efficienza e alla produttività, mi sento distante: dai miei simili come essere umano, e da me stessa come psicologa clinica. Perché se il mio unico ruolo fosse quello di consumatrice di strumenti intelligenti, cosa resterebbe della mia identità professionale, fondata sull’ascolto e presenza competente, sul tempo necessario a capire un altro essere umano?

Sulla possibilità di ripensare i processi organizzativi e gestionali tenendo conto della variabile umana?

Di immaginare che ogni trasformazione digitale, ogni innovazione è strettamente connessa al tema della psiche, dei contesti relazionali e non solo a quello dei comportamenti visibili, misurabili? Per quel che ne so su un piano teorico sulla mente e di esperienza clinica relazionale, “è la variazione la norma, non l’uniformità!” Quindi l’intelligenza artificiale è, sì, un’estensione della mente umana, ma anche uno specchio rotto che ne amplifica le fratture, le vulnerabilità, le contraddizioni nei termini di semplificazione e standardizzazione, ma anche nei termini di bias cognitivi o di pregiudizi culturali influenzati da stereotipi, con le conseguenze che già conosciamo su un piano reale (processi di auto-stigmatizzazione e polarizzazione; di discriminazione-emarginazione, di violenza, conflitti e tensioni sociali su piccola e larga scala).

Il ruolo dello psicologo clinico oggi


Personalmente, sono interessata alle grandi storie che il genere umano ama raccontarsi nelle diverse epoche, e in questa, tutto sembra ruotare o chiamarsi “AI”. Al contempo, mi interessa pure non subirne il fascino … o la fascinazione.
Non mi interessa avere fede/credo nel mezzo (AI), perché lo considero a disposizione semmai de clinico e della funzione generativa. E non il contrario. Come psicologi sappiamo inoltre che ogni cambiamento repentino ha un costo reale: emotivo, professionale, umano. Lo vediamo ogni giorno nei nostri studi, nei luoghi di lavoro, nei vissuti di chi si sente spaesato da un mondo che cambia troppo in fretta e che sembra lasciare indietro fasce di popolazione sempre più ampie.
E allora, qual è il nostro ruolo, oggi, in mezzo a tutto questo parlare di AI?

Innanzitutto, ricordare la nostra specificità. Il nostro mestiere non vive di urgenze, di notifiche mattutine, di fretta e di emergenza, ma di ascolto, di tempo e senso condiviso. Ha molto a che vedere col produrre risorse simboliche, col costruire transiti, passaggi di senso condiviso. Non si tratta quindi di inseguire la tecnologia, né di opporvisi per principio. Ma di stare nel mezzo, nello spazio umano che l’AI ancora non sa abitare: il luogo dell’esperienza emotiva, della contraddizione, della vulnerabilità.

Il nostro compito è aiutare le persone a restare Soggetti consapevoli, non semplici utenti. A chiedersi cosa significhi pensare, scegliere, desiderare, quando un algoritmo sembra poterlo fare al posto nostro. Significa lavorare sul piano dell’immaginario, del linguaggio, delle rappresentazioni.
Non per spiegare tutto, ma per restituire spessore all’esperienza umana. Non è poco. È, forse, la nostra forma più autentica di resistenza capace di richiamare anche il senso delle trasformazioni che rischiano di travolgerci e di farci male.

Nell’epoca dell’AI, dove l’efficienza e la semplificazione è la misura del valore, noi possiamo e dobbiamo rimanere custodi della complessità dell’umano. Facilitatori di significati in tutti i contesti o tavoli politici che ci vedono impegnati. È presenza nel presente, con lo sguardo allenato a cogliere ciò che non si vede subito: la fatica di essere umani, ma anche il desiderio profondo di continuare ad esserlo.

Forse è proprio questo, oggi, il gesto clinico più radicale: restare presenti nei diversi contesti di intervento, critici e generativi nel cuore della trasformazione digitale e non.

Imma Costanzo

Gruppoanalista, psicodiagnosta e psicologa clinica, con una passione per il racconto e la narrazione come strumenti di cambiamento e di benessere psicologico. Attraverso il suo lavoro, dentro e fuori la stanza di terapia, raccoglie storie, costruisce significati e ricerca nuove forme
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